Cosa fanno le persone quando
pensano di non essere viste? Quando credono di essere sole, al riparo da occhi
indiscreti? Che vizi ci concederemmo se fossimo su un’isola deserta dotata di
tutti i comfort?
La ragazza entra in camera, appoggia la borsa ai piedi della scrivania, si
toglie la giacchetta che indossa e la lancia sul letto. Poi si ferma un attimo,
indecisa sul da farsi. No, non è veramente indecisa, è come se temporeggiasse
gustandosi quel momento di attesa. Non è un’attesa fremente, di quelle in cui
si batte ripetutamente il piede per terra o si tamburellano le dita sul tavolo,
è più un’attesa calma, placida, una sorta di raccoglimento interiore.
Poi si volta verso lo specchio. È uno specchio a muro, grande, privo di
cornice, delle dimensioni di una porta, sistemato nel bel mezzo di una parete
totalmente bianca, come se non tollerasse altri elementi che possano rubargli
la scena, quasi un portale per un altro mondo. L’effetto è amplificato dal
fatto che sulla parete opposta, quella sotto cui sono stati posizionati letto e
scrivania, è un tripudio di foto, poster, quadri e cartoline pubblicitarie.
Inizia a spogliarsi. Non c’è erotismo nei suoi gesti, o almeno non c’è
l’intenzione in lei che li compie. Per chi guarda, per chi avesse la
possibilità di farlo, è tutto un altro discorso.
Come faccio a saperlo io? Ma soprattutto, chi sono io? Ve lo spiego dopo.
Durante questi piccoli gesti, mentre si slaccia le scarpe, mentre si sfila la
maglia, la gonna e le calze, non smette mai di guardare il proprio riflesso
nello specchio, neanche per un attimo.
Rimane in slip e reggiseno. Oggi non ha un completo abbinato: slip bianchi
sportivi, sgambati e a vita bassa, quasi un perizoma, e un reggiseno nero con
leggerissimi inserti di pizzo.
Continua a guardarsi intensamente. Si gira su se stessa, ruotando la testa fin
quando possibile per non perdere mai di vista la propria immagine. Recupera la
propria posizione iniziale, alza prima un braccio poi l’altro, infine entrambi.
Non so, è come se cercasse qualcosa, come se le sfuggisse un dettaglio, come se
cercasse di mettere a fuoco un particolare che solo lei è in grado di vedere. A
questo punto si slaccia il reggiseno e si sfila le mutandine. Tutto il
vestiario giace ai suoi piedi, dall’alto potrebbe sembrare una corona, o una
specie di nido. Ha la pelle molto chiara, e un sacco di nei. È magra, ma senza
i muscoli e le fibre di chi plasma il proprio fisico attraverso uno sport.
Eppure ha un bel sedere tondo, e dei piccoli seni bianchi irrorati da una selva
di venuzze azzurre. Continua a guardare il proprio riflesso. La luce del tardo
pomeriggio che entra dalla finestra la colpisce di taglio, e conferisce alla
scena una dimensione quasi religiosa. È come se dovesse succedere qualcosa da
un momento all’altro, un’apparizione, una rivelazione, ma non succede niente.
Si siede sul bordo del letto, che è subito dietro di lei, e allarga le gambe.
Penserete di sicuro quello che ho pensato io la prima volta. Vi immaginate un
determinato tipo di spettacolo. E invece no. La ragazza non fa proprio nulla di
quello che vi aspettereste, o magari sperereste. Semplicemente continua a
osservarsi, a studiarsi, anche lì. Certo, si aiuta con le dita, ma davvero vi
giuro che non c’è eccitazione nei suoi gesti. Non sta cercando di darsi
piacere, è piuttosto alla ricerca di qualcosa. Solo che non l’ha ancora trovata.
Non l’ho mai vista o sentita, neanche nel buio della notte, darsi piacere. Forse
è la chiave per entrare dentro se stessa, che desidera, non lo so. Ancora non
l’ho capito, e secondo me non l’ha capito neppure lei. Eppure è un rito che si
ripete praticamente tutti i giorni, al rientro a casa della ragazza. So che
vive da sola, e inoltre da quando ho scoperto il buco non ho mai visto entrare in
camera sua altre persone, maschi o femmine che siano. Le notti le passa sempre
a casa, a parte quando si assenta per l’intero fine settimana, ma credo che sia
perché va a trovare la famiglia. Ormai mi sento una specie di angelo custode.
Veglio dall’alto su di lei.
Il buco lo scoprì per caso, spostando un armadio durante un impeto pulitorio la
scorsa primavera. Non stiamo parlando di un buco gigante, ma di una sorta di
canaletto di neanche dieci centimetri di diametro scavato nel parquet e nel
cemento sottostante. Chi aveva abitato la casa prima di me l’aveva pensata
proprio bene. O magari era stata un’idea già del progettista? O dei muratori
che avevano realizzato l’edificio? Non era presente in nessun’altra stanza, e
tantomeno si intravedevano buchi, fori o feritoie nei soffitti. Un piccolo
sistema di specchi, come in un periscopio, rendeva possibile tenere sotto
osservazione buona parte della stanza al piano inferiore. La ragazza si era
appena trasferita lì. Diventò subito una droga, soprattutto nella fase
iniziale. Ormai ho preso i suoi ritmi, e so quando posso permettermi di
abbandonare la mia postazione. Non come quella prima settimana in cui mi
barricai in camera, cercando di limitare al minimo anche le tappe in bagno. Per
fortuna ha degli orari regolari, come capì presto. Magari chi mi aveva
preceduto non era stato così fortunato, e traslocò dopo aver sistemato
l’armadio sul buco in un barlume di rinsavimento.
Dalla porta di casa mia alla sua ci metto sei secondi, mi sono cronometrato,
otto al ritorno, ma solo perché le scale in salita sono un po’ più faticose.
Lascio la porta socchiusa, mi fiondo giù per le scale cercando di fare meno
casino possibile, suono il campanello, e poi faccio le due rampe che mi
separano dal mio appartamento a tre gradini alla volta, aggrappandomi con tutta
la forza delle braccia al corrimano. Mi chiudo la porta alle spalle facendo
molta attenzione a non sbatterla, e mi precipito al buco. Quando sono bravo
riesco a beccarla che sta ancora riemergendo dalla dimensione intima in cui è avvolta,
come se il trillo del campanello ci mettesse una vita a penetrare la bolla che
si è costruita attorno. A quel punto si spaventa, colta di sorpresa si guarda
rapidamente intorno, recupera le mutandine da terra, se le infila, prende la vestaglia
appesa dietro la porta, indossa anche quella, e corre scalza all’ingresso, ma è
sempre troppo tardi.
È un gioco che mi concedo ogni tanto, ma non troppo spesso, che ho paura che
inizi a sospettare qualcosa. Magari un giorno invece di scappare via aspetto
che venga ad aprire e mi faccio invitare in casa per un caffè.
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