domenica 24 giugno 2012

Il bandolo della matassa

Strano come nella fine, alla fine, tutto riacquisisca senso, assuma il proprio significato, o almeno dovrebbe. È che la fine non la comprendiamo mai, di sicuro non la nostra, di sicuro non subito, sennò tutto sarebbe più chiaro. Spesso neppure c'è, una fine, o se c'è la neghiamo, insomma è un casino bello e buono, fili annodati, trame sfilacciate, matasse senza bandolo, chi ci capisce qualcosa? Ho pure cercato bandolo su internet, proprio adesso, è una bella parola bandolo. Suona bene, riempie la bocca, rimbalza tra denti, labbra e alveoli. Vorrei dire di più ma non ricordo quasi nulla dell'esame di fondamenti di linguistica. Occlusive e fricative, ecco, giusto quelle. E comunque ero curioso dell'etimo della mia nuova parola preferita. Bandolo è il diminutivo di banda, di striscia, e allude al legame. In pratica la parola che sta a significare l'inizio, o la fine, di una matassa di filo è figlia del filo stesso, è proprio un piccolo filo, che però non lega niente, anzi interrompe. Mi sembra che potrebbe esserci dietro qualcosa di metaforico, di profondo, ma mi sa che è troppo complicato da spiegare, e poi io volevo parlare d'altro, e poi dai, avete capito.

Luigi l'avevo conosciuto per via del suo lavoro, cioè non proprio conosciuto, anche il nome lo venni a sapere solo dopo, leggendo il giornale. Forse ci eravamo anche presentati, ma io alle presentazioni faccio schifo, sti benedetti nomi non li ricordo mai, come tutti, tutti troppo impegnati a dire il proprio per ricordarsi quello altrui. Che sia una metafora, un sintomo anche questo?
Luigi lavorava in banca, allo sportello, e mi era stato antipatico dal primo istante.
E non tanto perchè mi proponeva sempre, in modo ottuso, investimenti di tutti i tipi con cui far fruttare i quattro spicci che tenevo sul conto, fondi pensionistici integrativi o carte prepagate per acquistare il mondo su internet, ma perchè ciò che mi trasmetteva dal punto di vista umano stava agli antipodi della fiducia.
Ora, io non so come sia regolata la politica di assunzioni nelle banche, quali siano i criteri di valutazione, ma credo che la trasmissione di fiducia e la capacità di rassicurare le persone dovrebbero stare ai primissimi posti. Magari sono io quello strano, magari con tutti gli altri clienti emanava vibrazioni positivissime, fatto sta che ogni volta che arrivava il mio turno allo sportello indossavo la mia armatura di diffidenza e lo guardavo storto tipo "Vuoi fregarmi, eh? Io non mi faccio fregare" dall'inizio alla fine, anche se si trattava solo di fare un semplice versamento. Luigi sorrideva, mi chiamava spesso per nome (scelta personale o tecnica appresa in qualche corso di formazione?), provava a fare qualche battuta, ce la metteva tutta insomma. Ma a me quello che arrivava era qualcosa di indefinibile, di viscido e di subdolo, come se dietro a ogni parola ci fosse dell'altro, come se nel suo caso le medaglie avessero ben più di un rovescio. O sarà che gli sudava il labbro superiore, sempre imperlato di piccolissime goccioline, saranno stati gli occhi tristi e un po' acquosi, o i nodi giganteschi della cravatta, che non mi sono mai piaciuti. Forse non era lui a essere antipatico, forse sono io che sono stronzo. Forse non l'ho mai capito ne mi sono sforzato di farlo. Ormai non c'è più niente da fare a riguardo. Un altro punto da aggiungere al mio elenco delle curiosità senza risposta.

Ana, questo il nome che si era scelta, un po' perchè facile da ricordare e da pronunciare, un po' perchè semplice, immediato e anche anonimo, faceva la prostituta. Un buon nome poteva già essere una mezza garanzia di successo: si imprimeva nella mente dei clienti al pari delle gambe snelle e del piccolo culetto tondo che mostrava per strada senza apparente vergogna. Un buon nome ti permette anche di costruirci intorno una nuova personalità, un'anima diversa, una solida parete che divide quella parte della vita, quella lavorativa diciamo, da tutto il resto. Anche di Ana scoprì il nome solo dopo, sullo stesso giornale. Il vero nome invece non lo so neppure adesso. È il punto subito successivo dell'elenco delle curiosità senza risposta. Ana prendeva servizio abbastanza presto la sera, intorno alle dieci, un orario perfetto per intercettare padri di famiglia e lavoratori, di ritorno alle rispettive case dopo l'ufficio, il calcetto o una birra con gli amici. Aveva uno spiccato senso degli affari, nonostante la giovane età. Aveva iniziato presto il lavoro (appena maggiorenne, così dichiarava almeno), e presto lo avrebbe terminato, dopo aver messo da parte una congrua quantità di denaro, congrua per una casetta di proprietà e magari un piccolo negozio di vestiti vintage. Ana aveva infatti un gran gusto nel vestire, peccato che poi fosse sempre costretta a sfoggiare minigonne davvero mini, e delle scomode zeppe che però piacevano tanto ai suoi "mecenati". Chissà, forse c'entrava quella scontatissima estetica da film porno. Ne aveva visti di porno, anche insieme ai propri accompagnatori, e mai che le attrici indossassero sandali bassi, o ballerine. Sarebbero state molto più sexy. E dire che tutte le attrici erano comunque delle stangone già di loro, con quei fisici da valchirie. Che bisogno avevano dei tacchi, di quei tacchi smisurati? Chi aveva imposto quelle scarpe? Qualche ditta produttrice che in cambio del finanziamento del film poteva promuovere le proprie calzature? A questi e altri pensieri si dedicava la ragazza mentre passeggiava nei pressi della propria postazione abituale, una fermata dell'autobus dotata persino di pensilina, sui viali esterni della città. La fermata dell'autobus era proprio di fronte alla banca. È lì che Luigi la conobbe.

Luigi aveva una vita abbastanza triste, e lo sapeva. L'unica cosa di cui andava davvero fiero era aver mollato casa dei suoi e, forte dello stipendio fisso garantito dalla banca, aver preso in affitto un bel bilocale in questa città così lontana dalla sua terra d'origine. Appena avuta l'opportunità, si era lasciato tutto alle spalle ed era partito. Non gli piaceva il proprio lavoro, si sentiva finto tutte le volte che cercava di mettere in atto quelle strategie di marketing spiccio che aveva imparato ai vari corsi d'aggiornamento. Ma sapeva che lo controllavano, quindi toccava ingoiare il rospo e andare avanti. L'indipendenza era un valore non negoziabile, e mai e poi mai sarebbe tornato dai genitori con la coda tra le gambe, come un perdente. Non aveva molti amici, ne fidanzate. Era sempre l'ultimo a uscire dalla filiale la sera, forse per rimandare il momento in cui si sarebbe trovato faccia a faccia con se stesso. Quella volta che fece particolarmente tardi, per sistemare un po' di incartamenti arretrati, fu anche la volta in cui Ana raggiunse la pensilina prima del solito, nella speranza di riuscire a rimediare qualche soldo extra, attanagliata dai sensi di colpa per aver intaccato il proprio gruzzoletto con l'acquisto di un paio di scarpe decisamente non in saldo.

Ana era metodica. Più che metodica. Aveva abitudini consolidate e non erano consentiti sgarri alle regole, perchè altrimenti qualcosa di brutto sarebbe successo, ne era certa. A prescindere dalle mie puntatine in banca, passavo spesso davanti a quella fermata dell'autobus nel mio tragitto dal centro verso casa, e a forza di soffermarmi sui dettagli avevo ormai capito quando Ana era in servizio, anche se lei non era lì in attesa del prossimo cliente. La sua presenza era segnalata infatti da una bottiglietta di Coca-Cola quasi piena (sempre. Mai che l'avessi vista vuota o anche solo con un fondino di bevanda. Questo rimarrà per me il più grande mistero, altro che l'elenco delle curiosità senza risposta), sistemata con precisione millimetrica sull'angolo esterno della piccola seduta rettangolare protetta dalla pensilina. Era un segno inconfondibile. Chissà se era mai capitato che qualcuno, passando, gliela fregasse. Chissà se un tale evento avrebbe causato un crollo di nervi nella ragazza. Io fui spesso tentato, non di prenderla quanto di spostarla, anche solo di pochi millimetri, e nascondermi nei pressi per vedere poi se se ne sarebbe accorta. Forse se la scolava tutta tornando a casa, a fine turno. Con Ana non avevo mai parlato, anche se più di una volta i nostri sguardi si erano incrociati. Il suo era malizioso, una promessa e una scommessa, il mio era perplesso, e sconsolato. Ammetto che mi faceva curiosità, titillando una parte remota del mio subconscio, però la scarsezza delle mie finanze era un freno abbastanza forte a qualsiasi pensiero più strutturato.

La prima volta Luigi e Ana si scambiarono solo un'occhiata. Ma Luigi, da solo nel bilocale, ci rimuginò sopra tutta la notte. Una puttana? Poteva piacergli una puttana? No, che schifo. Ma che male c'era? Chissà se lo parlava l'italiano. Se la poteva permettere una puttana? Beh, la sua vita sociale stava a zero, non spendeva una lira in divertimenti, perchè no? Che poi cosa c'era di diverso dall'uscire con una qualsiasi altra ragazza? Certo la forma di pagamento era più diretta, però almeno aveva la garanzia di portare a casa il risultato. Fu così che il giono successivo fece in modo di rimanere in ufficio fino a quando non arrivava la signora delle pulizie, e uscendo non si limitò a un'occhiata, ma ingoiando il groppo che aveva in gola rivolse la parola ad Ana, che pure aveva trascorso la notte in pensieri opposti ma simili, tra un appuntamento e l'altro.

Non so se ne sarebbe sbocciato un amore, so che comunque non ce ne fu il tempo. Li vidi insieme una volta, tornando a casa. Stavano chiacchierando sotto la pensilina, come due amici, anzi come due amanti. Percepivo la loro intimità. Fui stupito, e sorrisi. Tutto sommato mi sembrava una cosa bella. Ma io non faccio testo, quando c'è del sentimento le cose mi sembrano sempre belle. Si allontanarono insieme, non si tenevano per mano (sarebbe stato troppo, anche per loro), ma Luigi accompagnava Ana tenendole una mano sul fianco. Dove andavano? A casa di lui? O lei si portava i clienti nel proprio appartamento? O magari da qualche parte in macchina? Anche questo lo scoprì dopo, leggendolo sul giornale. Mi rendo conto che in realtà tutto questo è frutto della mia ricostruzione a posteriori, frutto delle poche occasioni che avevo avuto per interagire con quei due, degli articoli che per un paio di giorni si erano susseguiti sui principali giornali locali (poco più che trafiletti, d'altra parte perchè dedicare tanto spazio a due sconosciuti?), e soprattutto della mia immaginazione sempre a caccia di storie.

Stavo facendo colazione al bar (era una drammatica mattina in cui mi ero accorto di aver finito sia il latte che i biscotti), e mi misi a sfogliare i quotidiani. Era lunedì, tutte le notizie erano compresse per lasciare più pagine ai resoconti sportivi. L'articolo attirò immediatamente la mia attenzione. Anzi, furono le foto formato fototessera sotto il titolo. Erano sbiadite, le facce erano quelle di due persone molto più giovani, chissà dove le avevano pescate, ma non c'erano dubbi, si trattava di Ana e Luigi. Lessi febbrilmente l'articolo, e poi mi misi a cercare riscontri anche sugli altri quotidiani, litigando quasi con due anziani e una signora con la permanente che non volevano sganciare le loro copie. Ebbi la meglio. Ana e Luigi si erano schiantati con la macchina contro il muro di una caserma in periferia, dopo una fuga durata un paio di chilometri. Evidentemente oltre al bilocale possedeva anche un'automobile, non ci avevo pensato. La caserma sorgeva proprio dove la strada faceva una curva ad angolo retto. Non una curva da affrontare a oltre cento chilometri all'ora. Scappavano da una volante che aveva accostato, per un controllo, la macchina ferma in un parcheggio, cogliendo i due in fragrante. Perchè scappare? Potevano inventarsi una scusa qualsiasi, al massimo potevano rischiare una denuncia e forse una multa. Perchè? La curiosità aveva contagiato anche i giornalisti. Ecco perchè la notizia tenne banco un paio di giorni. Ma si sa, i giovani precari del giornalismo che si occupano di cronaca locale non possono certo spendere più tempo del dovuto su una cosa del genere, che forse meriterebbe un'inchiesta, ma un'inchiesta più morale ed emotiva che fattuale. Fu così che anche questa notizia passò.

Doveva per forza finire così male? Che divinità si erano inimicati? Da cosa fuggivano davvero? Qua si ferma anche la mia immaginazione. Non so perchè, ma mi sento in colpa nei loro confronti. In colpa per non aver capito, in colpa perchè qualcosa mi è sfuggito ma no so cosa. Forse è la fine che non torna, a dispetto di quanto avessi premesso. Ora, per rimediare a modo mio, ho aperto un fondo pensione integrativo, anche se ci verso sì e no cinquanta euro al mese, e tutte le volte che torno a casa, sulla solita strada, mi fermo al distributore automatico, compro una bottiglietta di Coca-Cola, e la posiziono esattamente su quell'angolo, dopo averne bevuto solo un piccolo sorso.

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